
Ottobre 2018
Quando arriviamo al campo, dopo mille incombenze e preparazioni e intoppi, l’atmosfera è surreale.
Stavolta sembra vuoto, non ci corrono incontro i bambini come fanno di solito. Non arrivano madri e donne stanche, non giungono uomini a salutare. E’ la prima volta che non respiro a pieni polmoni.
Sono stanchi, esausti, sono sempre più senza speranza e si stanno abituando all’idea che rimarranno senza patria e senza diritti in quei campi per molti anni.
Poi arrivano, piano piano… e diventano molti, moltissimi.
I bambini cercano attenzione, ti prendono la mano e cercano di comunicare con gli abbracci e i gesti. Come sempre.
Distribuiamo i pacchi, i campi sono tre e ci vogliono ore. Siamo senza medico, ci sono casi che andrebbero curati ma non possiamo fare altro che prendere nota .
Sono abituati ad ammassarsi in fila in una tenda e venir visitati e a ricevere medicine.
Sono delusi, sono amareggiata. Mi sento in colpa.
I bambini vogliono giocare, non abbiamo tempo questa volta e continuiamo a dire “baed” che vuol dire dopo. Ti prendono per mano e vogliono solo che li guardi, che perdi un po’ del tuo tempo.
Le donne stanno in disparte, si avvicinano a me e chiedono come sto, come stanno i miei figli.
Gli uomini hanno la stima per il nostro costante operato dipinta sui loro volti stanchi.
Distribuiamo cibo, accarezziamo l’idea di distribuire anche gesti e atti di gentilezza che aiutano i cuori.
Sorridiamo con loro, quasi scherziamo.
Abbiamo portato del latte e delle caramelle, ma è buio e se le divideranno il giorno dopo.
Beviamo del the seduti per terra e la mente cerca di pianificare quello che vorremmo fare nella prossima missione: sostenere una piccola scuola e costruire un campo da calcio.
Eh si, abbiamo portato dei palloni, non molti… ma è stata la gioia pura e pensiamo che anche le anime
vadano nutrite oltre al corpo per avere un domani degli adulti migliori.
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