Siamo rientrati da una missione lunga e impegnativa. Una di quelle che ti portano lontano, fisicamente ed emotivamente.

A casa, a distanza di qualche giorno. Le immagini, i volti, le parole, sono ancora tutte lì. E fanno fatica ad andarsene.

Siamo partiti in quattro: io, Valentino Caridi, il nostro fotografo, e due giornalisti italiani, Giuseppe Ciulla – che era già stato con noi al campo profughi – e Lorenzo Giroffi. Entrambi freelance, impegnati a realizzare un reportage e un podcast per raccontare la Siria di oggi, il sogno di padre Paolo Dall’Oglio e il nostro lavoro attraverso un format di cui, come promesso, ti racconterò presto.

La prima tappa è stata Homs, dove abbiamo partecipato a una celebrazione in sua memoria. Abbiamo poi proseguito fino Mar Musa, alla cui cima vi è il monastero da lui fondato e oggi gestito da Padre Jihad: un luogo straordinario, dove cristiani e musulmani vivono e pregano insieme. Un’utopia realizzata, almeno lì, iniziata con lui e che sembra proseguire nel suo ricordo.

Dopo aver incontrato la comunità, ci siamo spostati verso i nostri progetti nel nord del Paese.

Ad Idlib abbiamo incontrato le giovani ingegnere del progetto Espero: stanno entrando nella fase operativa. I cinque progetti ideati da loro sono pronti a partire. Lavoro serio, condiviso, documentato.

Abbiamo spostato la clinica, e l’abbiamo finalmente inaugurata. Presente il team al completo: due medici, un’ostetrica, un’infermiera e un manager. Doveva essere solo una visita, ma si sono presentate più di 50 famiglie! Due bambini sono stati presi in carico subito, uno ricoverato d’urgenza.

L’urgenza è sempre lì, pronta a farsi vedere, in un luogo dove non ci sono strutture e la sanità è al collasso.

Siamo tornati al nostro help-point per distribuire latte e alimenti terapeutici ai bambini più gravi: disabilità, malformazioni, condizioni complesse. Famiglie fragilissime, a cui siamo legati da tempo.

Abbiamo visitato le loro case, tenda per tenda. Come sempre.

Poi Aleppo, dove abbiamo incontrato il vicario apostolico di rito latino, Padre Jallouf, con lui stiamo valutando un progetto importante a beneficio di decine di famiglie vulnerabili.

Infine, ci siamo mossi verso sud, più precisamente verso Sweida, luogo di cui si parla poco, ma la cui situazione è drammatica: massacri, bombardamenti, minoranze religiose nel mirino. Ci siamo fermati tra Daraa e Israa, arrivando fino al check point, dove migliaia di sfollati si sono rifugiati in scuole e strutture improvvisate, ma non siamo riusciti a entrare. Troppo pericoloso.

Abbiamo incontrato bambini disabili, anziani soli, feriti. Una ragazza in sedia a rotelle, unica sopravvissuta della sua famiglia, sarà ora seguita da noi.

Abbiamo parlato con le autorità. Il nostro team tornerà lì nei prossimi giorni per avviare un intervento umanitario mirato. Ci prenderemo cura dei più piccoli, dei più fragili. Non potremo fare tutto, ma faremo la nostra parte.

Nel frattempo, grazie al nostro ambasciatore a Damasco, abbiamo incontrato Hind A. Kabawat, ministro del lavoro e degli affari sociali, unica donna del governo siriano, cristiana. Un incontro importante, per il futuro del nostro lavoro in Siria.

In tutto questo, i giornalisti ci hanno accompagnati. Hanno raccolto storie, voci, immagini. Noi abbiamo aperto loro porte e orizzonti. Loro ci hanno insegnato la profondità dello sguardo.

È stata una missione densa, faticosa, necessaria. E quello che abbiamo visto, non possiamo dimenticarlo.

Nei prossimi giorni il nostro team tornerà nel Sud della Siria per iniziare la distribuzione di aiuti. Ci prenderemo cura dei bambini più fragili e delle famiglie che hanno perso tutto.

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