I PROFUGHI CHE HO INCONTRATO SONO UN INNO ALLA VITA. DI HOLLY BONCORAGLIO

La partenza

Pegasus Airlines ringrazia. Ci siamo trovati tutti in aeroporto verso le 12. In questa missione saremo in 6, Arianna, Stefania, Marja, Andrea, io e Marino.

I bagagli sono tantissimi. Ognuno di noi aveva circa 5 borsoni a testa da 6/8 chili ciascuno, un preziosissimo lavoro fatto da Maruska, Mariateresa e Margherita.

Il fatto di avere una tale quantità di bagagli è stata in realtà la nostra fortuna al banco check-in. Erano così tanti che hanno riservato un desk solo per noi. Gli altri passeggeri ci lanciavano occhiate a dir poco preoccupate, contenti di non essere loro quelli in fila dopo di noi. Una volta caricati tutti i borsoni ci siamo guardati soddisfatti; fino a che qualcuno ha chiesto se avevamo contato il numero dei bagagli e ci siamo resi conto di non averlo fatto. Fortunatamente Mariateresa e Margherita avevano attaccato su ogni collo dei biglietti con scritto il contenuto e il peso di ogni singolo borsone!

Il viaggio è andato bene, i voli erano entrambi in orario e abbiamo incontrato Marino e Marija in aeroporto ad Adana, nell’area ritiro bagagli. Avevamo 6 carrelli così stipati che ad ogni buca e ad ogni piccola discesa puntualmente cadeva qualcosa. Una vota fuori dall’aeroporto abbiamo preso i nostri furgoni. Si trattava di due furgoni neri da 7 posti ciascuno, belli ampli internamente e con i vetri scuri. Li abbiamo caricati e siamo partiti, diretti al  market, dove avremmo trovato i pacchi alimentari pronti da portare al campo.

Il market è in realtà un garage con accatastate una montagna di scatole che il nostro istinto riteneva fossero i nostri pacchi alimentari. Una volta scese io e Arianna ci siamo guardate un po’ preoccupate: erano scatoloni da 25 chili ciascuno contenenti pasta, riso, legumi, olio, burro e dolci per bambini…. come avremmo fatto a trasportarli? I nostri furgoni erano già per metà occupati dai borsoni con le giacche.

Per fortuna, uno dei dipendenti del negozio che parlava un po’ inglese, si trovava li “per caso” con il suo camion bianco. Sempre per caso il furgone è abbastanza spazioso per i pacchi. Non avevamo scelta, perciò “per caso” o meno ci siamo trovati a dover accettare il suo aiuto.

Il piano originale era prendere il cibo, distribuirlo al primo campo, poi spostarci verso il secondo e distribuirlo lì. In un secondo tempo saremmo passati a prendere il furgone con le coperte, lo avremmo portato al secondo campo e distribuito insieme ai vestiti, poi saremmo tornati nel primo. Ma con il fatto che avevamo perso così tanto tempo, abbiamo dovuto cambiare piano. Prima passare a prendere il furgone con le coperte e guidarlo verso il primo campo, distribuire cibo e coperte. Poi andare al secondo campo, distribuire cibo e coperte in modo tale da lasciare liberi gli autisti, distribuire pail e giacche e poi ritornare al primo e completare la distribuzione.

Per fortuna l’autista che guidava il camion delle coperte conosceva la zona, la quale si trova in “the middle of nowhere”.

Il primo campo è abitato da curdi e siriani. In particolare ricordo una bambina con gli occhi verdi, siriana, e la bambina bionda. Quella con gli occhi verdi, mi si era letteralmente attaccata durante la missione che avevamo fatto nell’Ottobre del 2015. Ricordo che non mi lasciava mai. Nei mesi successivi chiesi ad Arianna di cercarla, ma purtroppo non la trovò più. Avevo con me un diario, che avrei regalato alla sorella maggiore della bambina Curda (il cui nome è Fiore, per noi); non perché io sia particolarmente affezionata a lei, ma perché ha la mia età; e come tutti i ragazzi della mia età penso abbia bisogno di qualcuno con cui confidarsi. Arianna mi aveva avvisato che probabilmente si era sposata, quindi nel diario ho messo una foto dove siamo ritratte insieme ad Arianna e a Fiore. Così, caso in cui non l’avessi trovata, avrei potuto donarlo alla sorella, con tantissimo affetto.

Questo campo è più vivibile rispetto al secondo; forze per la presenza del fiume, o perché è circondato da campi coltivati, o forse per la presenza della legna per ardere il fuoco. Certo non si può dire che se la passino bene, ma la povertà qui è diversa da quella desolante che si riscontra invece nel secondo campo.

Appena siamo arrivati Fiore, che teneva la mano della sua sorellina più piccola è corsa incontro a noi urlando “Arianna”. Ricordo come questa bambina mi era rimasta impressa poiché giocava sempre con i maschi, tra cui i suoi fratelli maggiori, e li comandava a bacchetta. Mentre sono immersa nei miei ricordi, lei viene verso di me chiamandomi “Abla” e mi abbraccia. Probabilmente anche lei si ricorda di me; forse perché durante il nostro primo incontro suo fratello mi aizzò contro una gallina.

Ci siamo spostati verso la parte sinistra del campo, dove c’era una piccola piazzetta. Lì ha avuto luogo la prima distribuzione. Questa volta avevamo chiesto la lista delle famiglie presenti, in modo tale da poter fare una distribuzione più equa e ordinata. Nonostante ciò non è stata una distribuzione facile. Non sono mancati qualche spintone né è mancato chi è rimasto senza cibo poiché non aveva lasciato il nome. Dopo la distribuzione io e Andrea ci siamo messi a gironzolare per il campo. Io volevo scattare qualche foto agli oggetti che facessero trasparire la condizione dell’essere rifugiato. Anche Andrea fotografava. Lui mi ricorda molto Sebastiao Salgado.

Stavamo camminando tranquillamente quando mi sono sentita chiamare da Arianna. Così sono tornata indietro e l’ho vista tenere in braccio un bambino. Questo piccolo non doveva avere più di 2 mesi, ma aveva due tubicini respiratori attaccati al naso, era molto pallido e magro, e muoveva a malapena gli occhi. Con voce preoccupata mi chiese di chiamare Marino. Lo ho trovato dopo qualche minuto mentre metteva una crema contro la leishmaniosi sull’orecchio di un bambino. Si è poi fatto condurre da Arianna che teneva tra le braccia il bimbo. Insieme siamo entrati nella tenda dei genitori, insieme all’interprete del negozio. In un attimo, da ironico Marino è diventato molto serio. Gli sono bastati pochi minuti per alzare lo sguardo e scuotere il capo in modo impercettibile. Nulla da fare. Il bambino morirà a breve.

Il suo problema è probabilmente dovuto ad anomalie durante il parto che gli hanno schiacciato la testa. Non vivrà a lungo. L’interprete si è poi girato verso i genitori, dicendogli che non servivano medicine e dovevano solo sperare in Dio, inshallah. Arianna lo ha corretto dicendogli che non c’era alcuna speranza; ma lui con gli occhi pieni di lacrime si è voltato verso di lei dicendo “lo so. Ma non posso, non posso proprio”. Uno alla volta siamo usciti in silenzio dalla tenda, lasciando soli i genitori che piangevano disperati. Avevano capito.

Fuori mi aspettava Fiore. L’ho presa da parte e le ho mostrato la foto della sorella e della bambina dagli occhi verdi. Ho scoperto così che la sorella si è sposata (ma non ho ben capito dove sia andata), mentre la mia piccolina è stata riportata in Siria.

Poi uno dei ragazzi ci ha chiesto se volessimo un po’ di chai. Noi, che avevamo fame e sete abbiamo detto di sì. Mentre loro si affrettavano a cercare 6 sedie che contassero tutte e 4 le gambe, io ho preso Fiore da parte, su suggerimento di Arianna, e l’ho portata dietro una tenda, dove nessuno ci poteva vedere. Dallo zaino ho tirato fuori il diario e un astuccio e glieli ho consegnati. Lei ha sgranato gli occhi e ha aperto la bocca. Io ho fatto segno di fare silenzio. Avevo un regalo per un bambino. Così se lo è nascosta nella maglietta e si è voltata per tornare a “casa” a nasconderlo (almeno questo è ciò che le ho segnato di fare; dico segnato perché non parlo mezza parola di curdo). Ma dopo qualche secondo si è fermata, si è girata e mi è corsa incontro. Si è bloccata e poi mi è letteralmente saltata al collo. Per poco non rotolavamo nel fiume entrambe. Ancora non so descrivere la felicità che provai in quell’abbraccio. Mi diede un bacio e corse via, verso la sua tenda.

Io sono tornata indietro mentre Arianna e Marja stavano comunicando con alcuni bambini. Quando dico comunicare non pensate alla comunicazione linguista, ma a quella corporea fatta di piccoli gesti volti a veicolare un messaggio. Marja in questo è davvero fantastica.

Io mi sono messa a passeggiare e ho trovato Andrea sorridente che accarezzava il volto di un bambino. Mi sono avvicinata e mi sono resa conto che stava parlando con un bambino speciale. Era un bambino paralizzato e affetto da un handicap mentale. Non parlava ma emetteva qualche vocale ogni tanto e batteva i polsi. Era su una sedia a rotelle, di quelle moderne. Eppure aveva un particolare che lo rendeva speciale, e che soprattutto aiutava noi: sorrideva moltissimo.

Questo bambino era un autentico inno alla vita. Così com’era si guardava in giro e sorrideva. Se provavi ad accarezzarlo sulla guancia chiudeva gli occhi e provava a dire qualcosa. In quel momento ho pensato a quale effetto avrebbe fatto su di lui un po’ di musicoterapia. Mentre io e Andrea lo ringraziavamo per la gioia che ci stava donando in quel momento, ci hanno chiamato per il the. Ma ci dispiaceva troppo lasciarlo lì da solo.

In più tremava un po’ per il freddo. Andrea corse verso Stefania che aveva in mano una delle sciarpe da donare ai bambini del campo. La portò al piccolo e gliela mise addosso e il bambino emise un verso di gioia sorridendo come un pazzo e battendo le mani. Per non lasciarlo lì, io presi la carrozzina e con l’aiuto di Andrea lo portai là dove avevano messo sei sedie. Mentre ci avvicinavamo Le persone venivano verso di noi. Marja, Stefania e Arianna si sono chinate verso questo bambino mentre io lo trasportavo. Per fortuna avevo l’aiuto di Andrea, in qualche punto, per colpa delle buche e dei sassi ho davvero rischiato di farlo cadere.

Avrei voluto portarlo via con me!

Dopo il the siamo ripartiti nuovamente per il secondo campo, con la promessa fatta a Fiore e agli altri bambini di cui non conosco il nome e che saremmo tornati con il resto della roba.

Son rimasta molto colpita dalla pazienza che hanno dimostrato sia i ragazzi del negozio, sia quelli delle coperte. In quel campo siamo stati più di un’ora, e sicuramente nell’altro campo avremmo impiegato un’ora nel distribuire le cose. E loro sono rimasti con noi, aiutandoci.

Dopo una ventina di minuti siamo arrivati nel secondo campo, dove vive la famiglia di Alì. Questo campo è davvero desolante. La strada per arrivarci è pittoresca.

Ma una volta finita la strada sembra di entrare in una grande discarica, dove non c’è vegetazione, non c’è acqua e nemmeno erba. Il terreno è sabbioso e sporco. C’è una fontana da cui esce acqua sporca e maleodorante. E’ pieno di pattumiera di ogni genere che gli abitanti bruciano al posto della legna per cucinare e per avere un po’ di acqua calda per lavarsi. Molte tende sono fatte di plastica, completamente fatiscenti. Quasi tutti i bambini sono scalzi, nonostante sia il 29 di Gennaio e faccia davvero un freddo pungente.

In questo campo ci sono 3 diverse nazionalità, turchi, curdi e siriani. Io non riesco a distinguerli, mentre Arianna, Marino e Andrea che sono un po’ più esperti di me riescono.

Qui la distribuzione è stata diversa. Abbiamo messo in un’unica tenda pacchi alimentari e coperte, così da lasciare liberi gli autisti che sono ripartiti dopo averci aiutati a scaricare.

Dopo avere accatastato la roba, il capo-campo ha chiamato le famiglie che erano segnate anche qui su una lista, mentre io e Stefania cercavamo di tenere buoni i bambini. E’ triste vedere bambini che si azzuffano per entrare in tenda e prende un po’ di cibo; ad un certo punto mi sono infuriata con uno che brandiva un bastone e colpiva i bambini. Non potevo insultarlo, non fosse che non conoscessi la lingua, ma gli ho urlato in italiano di finirla. Quest’uomo mi ha guardata malissimo e mi ha anche risposto in modo acido. Probabilmente non è abituato a vedere una donna, per di più giovane, che prende posizione contro di lui, ma a me non interessa: se ci sono io non ti devi azzardare a toccare un bambino. Così mi sono girata a cercare Arianna per chiederle se potevamo mandarlo via. Ma non sono riuscita a trovarla. Così ho chiesto un po’ in giro dove fosse, finché Marja non mi ha detto che era stata portata in una parte del campo da alcune persone. Insieme abbiamo concordato che se non fosse tornata presto saremmo andate a cercarla.

In realtà non c’era nulla di cui preoccuparsi, perché è tornata poco dopo verso la fine della distribuzione. Ci ha spiegato di essere stata in una parte di campo molto povera, dove gli aiuti non arrivano. Lì vi sono diversi orfani, tra cui ha riconosciuto una bambina che avevamo visto a ottobre 2015 e che ci avevano detto essere morta. Mi ricordo bene questa bambina, era strabica e completamente denutrita, oltre che orfana. Avevamo lasciato ad una donna, la quale aveva un altro figlio, del latte in polvere chiedendole di darlo alla piccolina. Mi ero sentita quasi in colpa, perché sapevo di averla costretta a scegliere tra suo figlio e l’altra bambina. Infatti qualche giorno dopo ci avevano detto che era morta. Io ero così contenta quando Arianna ci ha raccontato che non solo era in vita, ma aveva persino un paio di occhiali, che ho preso in braccio una bambina di 7 anni che mi si era attaccata fin dal nostro arrivo. Me la sono tenuta stretta stretta, felice che ogni tanto qualche miracolo accade davvero. E in cuor mio ho ringraziato quella donna per la sua generosità.

Dopo la distribuzione abbiamo allestito 3 tende e ci siamo divisi i compiti. In una tenda, Stefania e Marja avrebbero fatto il loro lavoro di elaborazione del trauma attraverso il disegno. La seconda tenda invece sarebbe stata il luogo dove Marino poteva visitare e curare i bambini con l’aiuto di Arianna. La terza tenda invece l’avremmo gestita io e Andrea per la distribuzione delle giacche.

Il laboratorio di disegno per l’elaborazione del trauma è stato veramente intenso ed doloroso, ma sicuramente molto importante. Stefania ha chiesto ai bambini di disegnare un luogo sicuro. Quasi nessuno ci è riuscito. Sui disegni solo bombe, gente stesa a terra, case incendiate e carri armati.

Marino ha diagnosticato 3 cardiopatie, un ragazzo a cui mancava un osso del braccio (e faceva davvero impressione vedere questo braccio piegato in modo totalmente innaturale), qualche leishmaniosi e malattie intestinali dovute all’acqua totalmente sporca. Il nostro interprete veniva chiamato incessantemente da una parte all’altra, e ha fatto davvero un ottimo lavoro.

Io e Andrea ce la siamo cavata bene anche senza interprete. E’ venuto con noi all’inizio per spiegare ad alcuni ragazzi che ci aiutavano a distribuire di mettere tutti i borsoni in una tenda, fare entrare 3 bambini alla volta, consegnare loro vestiario e poi farli uscire. Io ero dentro la tenda che aiutavo a distribuire, mentre Andrea stava fuori passandomi i borsoni e tenendo d’occhio la situazione. Fuori dalla tenda c’era una calca di persone che spingevano incessantemente. Mi ricordo molto bene che a ottobre 2015 quando dovevo distribuire i giochi mi avevano letteralmente assalito e avevano distrutto una parte della tenda. Questi bambini non hanno davvero nulla, e la loro foga è più che comprensibile.

Nel complesso la distribuzione è andata bene. Quasi tutti hanno avuto qualcosa. Mi è rimasto in mente un papà che teneva sempre in braccio la sua bambina che aveva un’infezione a un piede e non riusciva a camminare. Nonostante fosse un uomo non ha approfittato né della sua statura né della sua forza. Si è messo ad attendere in silenzio fuori dalla tenda, facendosi superare dagli altri bambini. Quando me ne sono accorta ho pensato che fosse doveroso portare qualcosa a quella bambina, così ho preso una piccola giacca e gliel’ho portata fuori. L’uomo mi ha fatto un inchino e mi sono resa conto che era molto magro. Non avevo cibo da offrirgli, allora gli dato una lattina di iced coffee che mi aveva regalato il proprietario del negozio di Adana.

Nel complesso la distribuzione è andata bene. Quasi tutti hanno avuto qualcosa. Mi è rimasto in mente un papà che teneva sempre in braccio la sua bambina che aveva un’infezione a un piede e non riusciva a camminare. Nonostante fosse un uomo non ha approfittato né della sua statura né della sua forza. Si è messo ad attendere in silenzio fuori dalla tenda, facendosi superare dagli altri bambini. Quando me ne sono accorta ho pensato che fosse doveroso portare qualcosa a quella bambina, così ho preso una piccola giacca e gliel’ho portata fuori. L’uomo mi ha fatto un inchino e mi sono resa conto che era molto magro. Non avevo cibo da offrirgli, allora gli dato una lattina di iced coffee che mi aveva regalato il proprietario del negozio di Adana.

Nel frattempo mi ha raggiunta Arianna la quale ci ha aiutato a distribuire qualche giacca e ha liberato Andrea che ha potuto continuare a fotografare.

Una volta finito con le distribuzioni, siamo stateraggiunte da Stefania e Marja.

Marja, artista distrada, ha iniziato a fare divertire i bambini. Era uno spettacolo bellissimo. I piccoli ridevano, urlavano e ballavano, la seguivano e la imitavano guardandosi a vicenda con occhi allegri e pieni di vita. Anche gli adulti e alcuni ragazzi che pressappoco avevano la mia età si sono radunati li vicino, incuriositi dalle risa e dalle urla che si sentivano in tutto il campo.

Mentre aspettavamo Marino, l’aria diventava sempre più fredda man mano che il sole tramontava. Così ho provato a imparare i nomi di quei bambini che avevano passato il pomeriggio a seguirmi. I. Ho detto loro che io parlavo italiano e inglese, così qualcuno di loro ha incominciato a contare “one, two, three..” fino al 7. Dopo il 7 c’era il vuoto assoluto. Così ci siamo seduti per terra e abbiamo incominciato a ripetere i numeri, fino al 10. Ad un certo punto una bambina bionda mi ha guardato e mi ha detto “Abla, love”; ci siamo stretti tutti in un abbraccio strettissimo, uno di quegli abbracci di gruppo fatti non per facciata, ma per dimostrarci che ci volevamo davvero bene. Poi ci siamo riseduti a terra e abbiamo detto il nostro paese di provenienza. In questo gruppo di bambini c’erano turchi, siriani e curdi. Era bello vederli tutti assieme, giocare e ridere.

Quando Marino ci ha raggiunti era quasi buio, e noi dovevamo ancora distribuire giubbini nel primo campo. Poco prima di salire in macchina abbiamo salutato la famiglia di Alì. La ragazza più grande, Majada, si è messa a piangere mentre salutava Arianna. Invece la più piccola si teneva stretta a Marino, e sorrideva. Prima di partire ci siamo girati tutti, noi e loro, verso le tende. Sopra le tende il sole stava calando del tutto, lasciando nel cielo sfumature che scaldavano il cuore.

Una volta sola in vita mia ho vissuto un addio tanto doloroso.

Sono salita in macchina con Arianna, Marja e l’interprete. Lui è un siriano laureato in archeologia che vive e insegna di Turchia da molto tempo. Nell’altra auto invece c’erano Marino, Andrea, Stefania e una famiglia con un bambino disabile al quale abbiamo acquistato una carrozzina. Mentre il furgone andava io ero in piedi sul retro cercando di svuotare più borsoni possibile e infilare i vestiti in un unico sacco. Essendo buio avevamo poco tempo, e avremmo semplicemente lasciato tutta la roba in una tenda e ognuno di loro sarebbe entrato a prendere ciò di cui aveva bisogno.

Una volta tornati nel primo campo abbiamo preso i sacchi che avevo riempito e li abbiamo trasportati in tenda. Fiore appena ci ha visti arrivare c’è corsa in contro. Ha aiutato me e Arianna a trasportare un sacco (che era più alto di me), e poi ci ha stretto la mano. Il cielo era bellissimo, una pioggia di stelle brillanti sopra le nostre teste. Faceva davvero freddissimo, e nonostante ciò la maggior parte di loro era scalza.

Il momento di risalire in macchina è stato per me il peggiore. Perché tornare in Italia dove i momenti più eccitanti erano le litigate in Consiglio di Dipartimento o l’organizzazione di eventi culturali? In quel momento non riuscivo proprio a trovare un motivo valido che mi permettesse di dire “che bello tornare a casa”. Sento già la mancanza delle corse e degli imprevisti, tanto quanto dell’abbraccio di Fiore. Prima di salire in macchina mi ha raggiunta, abbracciata strettissima e dato un bacio.

Vorrei concludere con una breve riflessione sulla fame e sul freddo.

Peter Hoeg, nel suo libro autobiografico “I quasi adatti”, racconta che quando immaginava come fosse avere una famiglia pensava ad una casa calda ed una tavola con tanto mangiare. E’ curioso come parlando con i profughi, la prima cosa che ricordano non è cosa facevano prima della guerra o come si vestivano, ma cosa mangiavano e come. Una persona per esempio mi ha raccontato che c’era sempre lo yogurt.

Per quanto riguarda invece il freddo non so davvero come facciano a sopportarlo. Io odio profondamente e detesto il freddo. Quando c’è nebbia o la pioggerellina stupida mi viene addirittura da piangere. E non sopporto la neve. Nei campi poche settimane fa c’è stata neve e pioggia; hanno distrutto le tende e allagato il campo. Io credo che queste persone abbiano una forza interiore incredibile. Davvero li ammiro per come affrontano la loro situazione, per come continuano a costruirsi una vita senza aspettare che essa passi sopra di loro passivamente. I profughi che ho incontrato sono un inno alla vita.

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